Leader e team verso un nuovo spazio di ascolto
Chi lavora con me sente ripeterlo allo sfinimento: il team è l’unità di base del funzionamento aziendale. Ma cosa significa davvero? Per essere team non è sufficiente fare qualcosa insieme. Bisogna condividere obiettivi e progetti, sale riunioni (fisiche o virtuali che siano) e scadenze e, mentre si fa tutto questo, bisogna sapersi ascoltare davvero – un altro mantra che esce dalla mia bocca ogni volta che approccio un’azienda, un’organizzazione, un’istituzione.
Pensiamo al drammatico periodo che stiamo vivendo, in cui la recessione non è solo una situazione economica ma anche una condizione psicologica. Le persone quasi dimenticano la cosa fondamentale (ovvero non ammalarsi) mentre cercano una nuova identità che sia in armonia con quella di sempre e che permetta loro di abitare questo nuovo mondo con un senso di efficacia, se non con leggerezza. In questo anno segnato dalla pandemia e dalle restrizioni che ne sono conseguite, è più che mai importante comprendere l’impatto che questo cambiamento ha sul benessere, sull’impegno lavorativo e sui bisogni. Noto invece una grande superficialità da parte di leader e manager nel gestire il lavoro smart e il coinvolgimento dei propri collaboratori a distanza. Si tende a fare come se la distanza non esistesse, come se stare dietro a uno schermo fosse uguale a trovarsi in ufficio o, ancor peggio, come se lo smart working regalasse al lavoratore solo vantaggi.
Come si può non comprendere la grave forma di distacco [era: distaccamento] psicologico che una persona può trovarsi a vivere rispetto al proprio lavoro e alla propria azienda? Dovrebbe essere una preoccupazione costante di chi conduce dei team. Sul lavoro infatti il coinvolgimento è direttamente correlato alle prestazioni aziendali, ed è un fattore predittivo del successo ancor più di queste ultime, anche in momenti particolarmente difficili. Dipendenti coinvolti ed entusiasti del proprio lavoro si sentono, dal punto di vista psicologico, “proprietari” dell’azienda, tanto da guidarne le prestazioni e l’innovazione con agilità, fermezza e serenità, facendo progredire l’organizzazione in un clima gioioso, ma sfidante.
Non dovrebbe esserci bisogno di sottolineare quanto manager e leader possano favorire il coinvolgimento dei team. Come? Mantenendo i dipendenti informati su ciò che sta accadendo nell’organizzazione, stabilendo le priorità, fornendo feedback continui e alimentando la motivazione. Motivare è una leva potentissima, sempre. Immagino la motivazione come una piantina che nasce esile e bisognosa di cure quotidiane ma che, se cresciuta sana e robusta, ha la capacità di radicarsi saldamente, arrivando ad autoalimentarsi. Al contrario i dipendenti non motivati e non coinvolti sono psicologicamente distaccati: dal lavoro, dall’azienda, dal team – persino dal loro capo. Il loro bisogno non potrà mai essere pienamente soddisfatto, perché incontrerà livelli di frustrazione sempre crescenti. All’azienda dedicheranno tempo, certo, ma non energia, non passione; poiché i loro bisogni non vengono soddisfatti si sentiranno sempre più infelici e disimpegnati, e presto avvertiranno risentimento, fino a palesare la loro infelicità. Ogni giorno, questi lavoratori rischiano di minare ciò che i loro colleghi opportunamente motivati realizzano, demolendo ciò che faticosamente si è costruito.
In questo momento, purtroppo, sono i leader stessi a registrare alti livelli di stress e di burn-out, maggiori forse delle persone che gestiscono. Ma è proprio in momenti come questo che bisogna ridestare la fiducia nel potere delle dinamiche di gruppo e contrastare le spinte depressive, oppositive, distruttive, per avviare la costruzione di uno spazio (o di un nuovo spazio) per il gruppo. Partendo dai valori dell’azienda e dalla cultura inscritta nel suo DNA si può cominciare a dissodare, coltivare e fertilizzare il terreno della fiducia e dell’attenzione reciproca. Infatti, solo se esiste uno spazio di rispetto e di stima per l’altro, di sintonia, empatia e riconoscimento reciproco ci potrà essere un luogo dove poter mettere in discussione in modo costruttivo ciò che non funziona. I leader devono semplicemente esserci – anche se di semplice, lo so, non c’è proprio nulla. Guai però a pensare di far ripartire un processo bloccato dicendo cosa fare e come e quando farlo (il capo ordina, il subordinato esegue), una modalità che rischia di risultare ancor più alienante perché non prende in considerazione né le motivazioni di un processo fallimentare, né i bisogni di chi è coinvolto in tale processo; diventa semplicemente un’azione riparatoria che ha in sé qualcosa di colpevolizzante: “Visto che voi non siete stati capaci di risolvere la situazione, ci penso io”.
Cambiamo prospettiva, piuttosto: smettiamo di pensare ai dipendenti come a delle “braccia” e ipotizziamo che debba essere il leader a pensare a come “servire” i membri del proprio team. Ecco che il suo ruolo diventa quello di aiutare le persone a esplorare le proprie potenzialità e a crescere, fornendo loro un supporto emotivo tangibile, offrendo chiarezza di visione e di missione, valorizzando i punti di forza di ciascuno in relazione agli obiettivi; sostenendo e motivando ciascuno meglio che può, senza paura che ciò allontani dal tradizionale modo di lavorare. A quel punto anche lo smart working diventerà un’opportunità per tutti, perché le persone non sentiranno più di dover gestire un’autonomia senza precedenti ma apprezzeranno la libertà di essere pienamente sé stesse continuando a sentire di abitare lo spazio del gruppo. Spazio dove chi condivide è davvero ascoltato, dal suo leader prima di tutto.